Lo scaffale degli ultimi respiri

Un libro di Aglaja Veteranyi, Keller Editore

Aglaja Veteranyi rappresenta quella letteratura che guarda a una parte di mondo troppo spesso ignorata e che grazie a case editrici indipendenti, come la Keller, può oltrepassare i confini. Dopo la lettura de “Perché il bambino cuoce nella polenta“, è il turno dell’ultimo libro “Lo scaffale degli ultimi respiri”.

Chi ci parla è stata concepita a Cracovia, è nata a Bucarest da mani tedesche, ha lasciato le appendici in Cecoslovacchia e di adenoidi è stata operata a Madrid. Figlia di circensi, dopo essersi spostata frequentemente portandosi addosso lingue che non sono la sua, sapori e profumi di terre lontane, si stabilisce in Svizzera. A quattordici anni, analfabeta, decide di imparare il tedesco, una lingua che non è quella nativa ma che le cresce addosso.

Lei non ha radici in nessun luogo.

La sua è una famiglia “amputata”: lo zio è in galera, il padre è scappato, lei non riesce ad amare sua madre ma muore d’amore per la zia: quella a cui deve dire addio perché il freddo della morte se l’è portata via.

È questa la storia di Aglaja Veteranyi, figlia di circensi rumeni, sbarcata in Svizzera con tutti i paesi riposti alla rinfusa in valigia, parole che non trovano radici e rituali rumeni un po’ sbiaditi.

“Costel lava il grano – in nove acque, perché nove sono i cieli – versa le noci e inizia a rotolarci sopra la bottiglia per tritarle. Mischiare, impastare. Costel prepara il dolce dei morti, perché i morti hanno fame”. 

“Lo scaffale degli ultimi respiri” è un romanzo potente che si cicatrizza addosso e ogni parola si conficcherà nella carne.
Nel dolore della morte della zia, si eleverà la poesia di Aglaja Veteranyi riempiendo un corpo che marcisce, un saluto soffocato, il cuore di chi resta e quello di chi parte.

Una vita senza radici la sua, una vita senza madrepatria, senza una casa a cui tornare a sera per riscaldarsi. Un’esistenza che si aggrappa a parole sconosciute, a profumi che non le appartengono, attraverso rapporti materni frantumati, amori traditi e mancati; attraverso l’ incompiuto e  un destino un po’ beffardo che ci ricorda che “si passa molto più tempo da morti che da vivi”.

E di morte e dolore è permeato l’intero romanzo. Nessuna luce nell’ultimo rigo di un romanzo intenso e invasivo.

È forse l’assenza di radici a renderci fragili? O la lingua madre che scorre senza attaccarsi alla pelle?
O forse è l’amore di una madre che scivola senza restare mentre quello della zia affonda in ogni strato della pelle? È la morte, forse, a renderci fragili?

La morte che Aglaja Veteranyi ha abbracciato nel febbraio 2002, poco prima l’uscita di questo romanzo, gettandosi nelle fredde acque del lago di Zurigo.

“Quando l’ultimo respiro di un uomo arriva a Dio, in quel respiro si raccoglie tutta la sua vita e quell’ultimo respiro è come un libro in cui Dio legge la vita di ogni uomo. La biblioteca di Dio è uno scaffale pieno di ultimi respiri”.

Anche del tuo, cara Aglaja, che ci hai regalato l’ultimo tuo intenso respiro.

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