I pesci non hanno gambe | Jon Kalman Stefansson

Scelto per un viaggio in Islanda, questo libro scava nell’oscurità di questa terra per ricordarci l’arte e la vita. Non sarà questo paese meraviglioso il protagonista vero del romanzo. Ma leggendone le pagine si potrà comprendere meglio ciò che gli occhi non vedranno.

Ari fugge da Keflavik dopo aver mandato all’aria il suo matrimonio facendolo diventare un banale martedì. Editore e scrittore di successo, amante delle parole ma incapace di comunicare, è costretto, molti anni dopo, a tornare proprio da dove era fuggito.
Ed era tornata dal Canada un secolo prima, con una valigia piena di sogni e di amore, anche sua nonna Margrèt. Si spogliò della sua America per l’uomo che amava e si ritrovò ingabbiata in un villaggio di pescatori dove il mare prevale su tutto: sulla rabbia, sul dolore, sui sentimenti.

La Keflavik di Stefansson è agonizzante. Le sono state strappate via le quote ittiche e i tralicci su cui essiccare il pesce. Cosa resta allora a questo villaggio di pescatori abituato a sfidare le onde per vivere?!

A Keflavik ci sono tre punti cardinali; il vento, il mare e l’eterno.

Per Ari l’unica bussola valida e sempre eterna diviene l’arte.

La cosa che impedisce di dissociarsi (…) di andare in pezzi, di diventare sventura, una ferita gocciolante o pura e semplice crudeltà, è la creazione letteraria, la musica, l’arte. Il motivo per cui ognuno può, nonostante tutto, perdonare a sé stesso di essere un uomo.

La storia oscilla tra presente e passato scavando così a fondo nella storia, fuori e dentro di noi, che ci perdiamo non nelle imprese eroiche ma nei piccoli gesti degli esseri umani che si fondono con l’esistenza e con il mondo e che spiegano la costante ricerca della propria individuale felicità.

I pesci non hanno gambe ci racconta la storia di Ari e dei suoi antenati, di pescatori che vogliono navigare fino alla luna, di sogni incagliati tra le reti dei pescatori. Ci parla della storia buia dell’Islanda dove d’inverno la luce si palesa appena, così lontana e flebile come la speranza viva in quella terra nera e scura.
Ci racconta dell’amore, questa esplosione solare che ti distrugge la vita e rende abitabili i deserti, della solitudine, del sottile equilibrio tra follia e paura.
Ci narra di donne, nonne e madri coraggiose, di uomini, nonni, padri e pescatori; di fiordi, di un mare che è catene e libertà, di violenza e di speranza.

È un romanzo duro che spinge a guardarci nel doppiofondo poco frequentato dell’anima. A fare i conti con le paure e i ricordi circondati dalla desolazione e dal rumore della nostra mente.
Il finale è doloroso, arriva inaspettato come un pugno sul volto. E ti lascia esanime, affaticato.

Dentro di noi si annidano i demoni, dentro il sangue caldo si nasconde una profonda malvagità, e solo la bellezza può salvare il mondo.

Stefansson scava a fondo nella vita troppo breve e incerta per distogliere lo sguardo e lo fa con la delicatezza di una scrittura prosaica che è un’ala bianca che fende l’oscurità: come quando d’un tratto, intorno a noi, inizia a ballare la signora della notte e ci rammenta l’aurora della vita.

Sì, è proprio così, la bellezza salverà il mondo.

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