Trilogia di New York | Recensione

Ho già constatato più volte la grandezza di Auster, ma con Trilogia di New York , egli conferma e riafferma la sua statura di scrittore in grado di innovare la letteratura americana attraverso l’uso di temi suggestivi e trascendentali, lontani dai canoni classici. L’intera opera è irrealistica, permeata di invenzioni letterarie e qualche rimasuglio di realtà. 

È facilmente intuibile che ci troviamo di fronte a tre racconti quali “Città di vetro”, ”Fantasmi” e “La stanza chiusa”, scritti tra il 1985 e il 1987.  Seppur separati, possono essere letti come un’unica storia, lo stesso autore dice infatti che
<< In sostanza, ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza>>.

Perché New York? Perché questa città è il “non luogo”, il posto in cui ci si sente smarriti, è il luogo della solitudine. Un’estensione fino all’infinito del perdersi e ritrovarsi per poi perdersi ancora. Sebbene la grande mela resti un po’ in disparte, la sua presenza è costante, leggera, avvertita appena tra le righe. Ci si perde nella sua grandezza.

Daniel Quinn lo scrittore che vestirà i panni di un detective, Blue detective di professione che finirà per identificarsi nell’uomo su cui sta indagando, l’io-narratore della terza storia, di cui non c’è dato sapere il nome, vivrà la vita di un altro. Ogni protagonista smarrirà sé stesso e con il terzo racconto si assume la massima dissolvenza dell’io in un’incalzante narrazione dai contorni kafkiani. Ogni cosa è avvolta dal mistero, ogni finale sembra privo di senso. Io stessa procedo del tutto smarrita fino all’ultimo racconto, impaurita che forse, stavolta, niente verrà rivelato. Tutto sembra surreale, tranne il taccuino rosso che l’-io narratore riceve dall’amico scomparso. Ecco dunque il cerchio Austeriano che si chiude, quello che ti fa vagare quasi senza meta nella lettura salvo poi renderti conto di essere stata condotta attraverso il filo della magistrale narrazione alla perfetta conclusione. È proprio da questo taccuino che sono state raccontate le prime due storie. Scritte dai protagonisti dei primi due racconti e dall’amico scomparso dell’io narratore della terza storia e che si fa solo portavoce delle medesime.  

<< Tutta la storia si restringe al suo epilogo e se ora quell’epilogo non lo avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro>>.

Vi è un filo conduttore della vicenda: l’indagine. La ricerca costante dell’io in una realtà quasi claustrofobica e dalla quale si vuole fuggire.

<< Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più>>.

Ritrovo anche qui il tema del linguaggio, nel gioco sapiente di parole tipico di Auster che diventa un tema dominante in Città di vetro con chiari riferimenti alla torre di Babele e la costante ricerca di una lingua nuova che << finalmente dica quello che si deve dire>> perché quella attuale non riesce più a spiegare il mondo circostante.  Questa considerazione ci porta al ruolo dello scrittore, altro tema presente in tutte le opere di Auster. Lo scrittore vive una forma di alienazione personale. È nella scrittura che egli si dà senza tregua distaccandosi dal mondo circostante e vivendo riflesso nelle storie che egli stesso scrive. È per questo motivo che Fanshowe, protagonista de La stanza chiusa, terminato di scrivere tutto quello che aveva da dire si dilegua, senza più altro scopo nella vita.

<< Strappai le pagine del taccuino una a una, le accartocciai e le gettai in un cestino di rifiuti. Giunsi all’ultima pagina mentre il treno si metteva in movimento>>.

Lasciamo quindi che la letteratura resti incompiuta, aperta a ogni nuovo inizio, che si perda fino a perdersi in sé stessa.

Nonostante lo smarrimento iniziale, ho trovato un Paul Auster magnifico, una scrittura lieve e le emozioni che solo i grandi scrittori sanno dare.

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