L’assassino della città delle albicocche

Quando Konstanty Gebert dopo la lettura del libro di Szablowski scrive che siamo di fronte alla nascita di un nuovo Kapuscinski, non sbaglia.

L’assassino della città di albicocche è il reportage di una Turchia spaccata in due: una parte asiatica, l’altra europea; un lato moderno l’altro conservatore.
Per raccontare un luogo così complesso e particolare è importante calarsi profondamente nella storia; predisporsi all’ascolto e all’incontro con l’altro nel pieno rispetto delle vite che si hanno di fronte.

 Szablowski ci riesce egregiamente e ne viene fuori un reportage profondo, originale, a tratti divertente. Un romanzo polifonico narrato attraverso le voci della gente: quelle che si alzano in cielo al parco Gezi, quelle di alcune prostitute costrette a una vita infima perché ingannate, vendute da mariti o parenti, ma dopo tanti anni finalmente libere di raccontarsi e imboccare una nuova via.
Ma mentre la gente urla scendendo in piazza con le foto di Ataturk, forte grida il silenzio sul genocidio degli armeni.
Del resto, come si può raccontare qualcosa che chiunque rinnega sia accaduto?
L’intervista alla famosa regista di una fiction di successo fa riflettere sul ruolo della donna all’interno delle città turche di periferia.
Voltiamo pagina e siamo di fronte alla situazione curda, nota su tutti i giornali di oggi. Leggiamo la storia di Ataturk e l’ascesa al potere di Erdogan.
Prendiamo atto della fine dolorosa dei migranti turchi che arrivati a Lesbo vengono rispediti indietro dai greci; o quelli che perdono la vita nell’atto coraggioso di un cambiamento, di un sogno che affonda nel mare.
Imparo il “baibaibush”, metafora della lotta dei poveri contro i ricchi.

Imparo l’architettura di Istanbul, la magnificenza di Agha Sofia e la vana speranza di Sinan di superarne la grandezza e la meraviglia costruendo la moschea di Solimano. Un sogno disilluso?
Esploro Malatya col suo profumo di albicocche e il racconto sul suo assassino.
Mi faccio incantare dalla poesia di Nazim Hikmet e dalla sua vita.
Mi ritrovo davanti a un paese che si rifiuta di entrare a far parte dell’Unione Europea, che disapprova l’occidentalizzazione ma che non si lascia scappare l’immagine di Obama che mangia un’albicocca di Malatya per farsi pubblicità.

Ho viaggiato in un paese di cui ho appreso la cultura, senza muovermi di casa.
Ho scoperto un reporter capace di calarsi nella storia, senza rimanerne coinvolto.
Ho scoperto un libro, L’assassino della città di albicocche , che ha tessuto i fili di una memoria collettiva, il presente e il passato di una nazione.
Ho scoperto un paese in cui le persone si muovono ogni giorno tra Asia e Europa lungo il Bosforo, mantenendo forte la loro identità e le loro contraddizioni forse troppo incomprensibili ai nostri occhi.

<<Anch’io ho uno stretto dentro di me” dice, e getta un grande pezzo di pane verso i gabbiani che seguono il traghetto. “Ogni turco si sposta mille volte al giorno fra la tradizione e la modernità. Fra il cappello e il velo. La moschea e la discoteca. L’Unione Europea e l’ostilità verso l’Unione Europea”. Ha colto il punto. Tutta la Turchia è squarciata da uno stretto invisibile (…) Perché è troppo grande e culturalmente troppo diversa>>

Ho scoperto questo libro grazie al viaggio in Turchia fatto da Mirko, che oltre a essere mio amico è anche un travelblogger.
Sul suo blog www.viaggiatoreda2soldi.it potete trovare una guida dettagliata, foto e video della Turchia e di altri posti meravigliosi.

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