La quarta parete | S. Chalandon

Ci troviamo a Parigi, luogo delle contestazioni studentesche del ’68. Georges si trova tra le file della sinistra, sostenitore delle cause che infervorano i giovani, in lotta per la liberazione della Palestina. È alla Sorbona che conosce il regista greco, rifugiato a Parigi perché oppositore del regime dei colonnelli, Samuel Akounis. Grazie all’amicizia con quest’ultimo, Georges impara che alle spranghe di ferro ci si può opporre col teatro. È il momento in cui legge l’Antigone di Jean Anohuil che si ispira a quella di Sofocle, riadattata però al contesto in cui l’autore si trovava: una Parigi occupata dai nazisti. 

Ed è proprio questa l’opera che Samuel vuole rappresentare in un cinema diroccato sulla linea di confine a Beirut.  Perché proprio a Beirut? Perché desidera due ore e mezza di tregua dalle lotte civili. Opporre alla guerra la cultura, aprire un dialogo tra le fazioni. Sì perché gli attori sono stati scelti tra la gente del luogo a rappresentanza di tutte le fazioni: Antigone è palestinese, Emone è druso, Creonte è un cristiano maronita, le guardie sono sciite.
Nel gergo teatrale la “quarta parete” è ciò che divide gli attori dagli spettatori, un muro immaginario che gli attori costruiscono attorno a loro per rafforzare l’illusione. Nel romanzo invece, diviene la parete da abbattere per unire tutti in una rappresentazione teatrale che attinge alla realtà e alla speranza: abbattere le differenze tra le fazioni religiose e politiche per opporre alle scene della morte, le scene della vita.

Ma Samuel si ammala e dovrà chiedere a Georges di realizzare il suo sogno, il quale ormai sposato e con una figlia di 3 anni, lontano ormai dalle lotte, non può tirarsi indietro.
Volerà a Beirut e metterà in scena quell’Antigone che gli aveva cambiato la vita.

Ma un conto sono le lotte studentesche, seppur contornate di spranghe e lacrimogeni, un altro è la guerra, quella vera. Quella fatta di palazzi crivellati di colpi, cecchini pronti a sparare se qualcuno supera la linea di confine, quella fatta di povertà, paura e distruzione.  La guerra in Libano, che tocca l’occidente solo tramite tv, arriva adesso diretta come un tonfo al cuore e Georges ne rimane sconvolto. È un mondo che sconvolge e fa vacillare ogni certezza. Tutto ciò che sembra normale da questa parte di mondo, viene rivalutato e allora viene spontaneo pensare a come si possa reagire davanti a una realtà che annienta. La stessa che Georges vede davanti ai suoi occhi, la stessa che Charandon ha potuto osservare nella veste di reporter.

Nonostante lo scenario difficile e sempre a contatto con la morte, Georges tiene in piedi il sogno di Samuel e continua a lavorare costantemente al progetto. Riesce a incontrare i ragazzi, riunendo sotto lo stesso tetto sciiti, cristiani, musulmani, drusi e palestinesi. Entra con delicatezza nelle loro vite, li conosce, li apprezza, fa per loro, per quel sogno comune, cose che non si sarebbe mai aspettato. Li stima per tutto quel coraggio e quella voglia di andare in scena e mettere a tacere bombe e kalashnikov, anche fosse solo per dure ore. Tutte le fazioni hanno accettato di spegnere il fuoco della battaglia per la prova generale. Giunge il momento di rivedersi tutti, tutto è pronto. Gli attori sono in scena e Georges interpreta il Coro.

Sono l’unico a rompere la quarta parete. L’unico ad accettare la finzione del mio ruolo. L’unico a spezzare l’illusione. Lo spettatore mi vede, l’attore m’ignora. Sono sul palco, ma al margine”. Il silenzio viene interrotto e tutto è ridotto in cenere. Perfino la quarta parete si sgretola di fronte a un Antigone violata e poi uccisa, a un Edemone torturato e trucidato, davanti a una bambina con la gonnellina che giace per terra in una pozza di sangue.

Nelle parole di Chalandon risuona l’eco del massacro nei campi di Sabra e Chatila il 18 settembre 1982, dove uomini donne e bambini furono massacrati a opera dei falangisti in un atto definito dalle nazioni Unite “un genocidio”.

Morti uguali, tutti stecchiti, inutili, marciti.  E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi.

Cosa resta di quel sogno di pace? Nulla.
Se non la fievole speranza che dalla cultura si levi la memoria di un passato inglorioso e buio che smentisca la realtà attraverso una quarta parete che non divida, che non illuda, ma che pretenda a voce alta: PACE.

Un suono che arrivi fino all’ultimo posto dell’ultima fila di noi, spettatori e attori di questo mondo.

4 commenti
  1. Deb Leggendoromance
    Deb Leggendoromance dice:

    Sembra un romanzo intenso, per certi versi anche duro. E in questo momento difficile, in cui la cultura ha subito un duro colpo, forse si può capire che è uno dei modi migliori per gridare la propria voce

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  2. Lucia
    Lucia dice:

    Sicuramente una trama particolare che non si vede tutti i giorni tra gli scaffali delle librerie, ma sicuramente non il libro che fa per me!

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